Lost Team of Friends!

Probabilmente sono l’ultima ad averli scoperti, ma non sono davvero buffi?
[Da struzzo.tv]

[Attenzione però: sono un po’ spoilerosi per la seconda stagione, e forse in qualche dettaglio anche per la terza.] 

Di mala sorte e cattiva fortuna

Ok, io sono pigra, inconcludente, discontinua e tutto quanto – però in queste ultime settimane mi è successo davvero di tutto (nel mio piccolo, intendo; niente di cataclismatico o epocale, tutta roba da piccolo-borghese piccola piccola: non aspettatevi granché).

 – Un paio di sabati fa

Decido di andare ad esplorare il nuovissimo centro commerciale la cui apertura ha meritato nientemeno che la costruzione di una rotonda, una rampa d’accesso dedicata e due parcheggi di cui uno coperto – insomma, un evento irrinunciabile. Ho appuntamento con la mia amica B. fuori città, perché io e l’auto non abbiamo ancora risolto i nostri annosi conflitti e non mi sembra il caso di impuntarci sulla terza che non entra o sulla dinamica degli incroci proprio in mezzo alla baraonda sabatale; quindi B. mi preleva e dopo un paio di giretti di riscaldamento puntiamo dritte verso il negozio di scarpe. Qui mi accomodo su un pouf e decido che le decolleté a punta tonda mi fanno un piedino da Cenerentola, ma mentre mi avvio a pagare mi rendo conto di non avere più il telefonino in tasca. Torno indietro, e con il mio altro telefonino (eh già, sono telefonodipendente) compongo il mio numero. Squilla, più o meno nei pressi del pouf di cui sopra. Curiosamente, però, il mio telefonino squilla in movimento; cerco di seguirlo, ma la gente mi intralcia e lo squillo si allontana. Occupato. Ricompongo il numero, suona di nuovo, ma un po’ più distante. Di nuovo occupato. Ritento: l’utente chiamato non è raggiungibile. Bastardi.

[Ci tengo a precisare che il telefono in questione era un vecchissimo Nokia-baracca con la cover dei Flintstones, io stessa mi vergognavo ad usarlo: valore commerciale forse 10 euro, spiccata tendenza a perdere il tasto con il numero 9 (chi ha un telefono simile saprà di cosa sto parlando, perché è un difetto congenito del modello). Quanto alla scheda, ovviamente l’ho bloccata, ma con rischi indicibili e traversie innumerevoli perché non è intestata a me ma alla mia dolce metà. Dulcis in fundo, tornando a casa abbattuta e scornata dopo tutte le operazioni burocratiche necessarie a riavere il mio numero di telefono, una nebbia assassina mi costringe a tornare a casa del mio fidanzato guidando alla cieca, e quando dico alla cieca intendo a caso.]

 – Il giovedì successivo 

Dovete sapere che sono molto presa dallo studio perché, tra le altre cose, fra un paio di giorni dovrò presentare al consiglio dei docenti la mia idea per il mio progetto di ricerca; quindi le mie reti neuronali sono seriamente danneggiate dal perpetuo rimuginare sull’epica francoveneta, e inoltre all’epoca dello svolgimento dei fatti che vado narrando i miei emisferi cerebrali risultavano spiacevolmente fuori sincrono (più fuori sincrono del solito) a causa di una prolungata astinenza da caffeina, autoinflitta da svariati giorni nel tentativo di contrastare un’incipiente gastrite.

Quindi (tornando al presente storico) giovedì prendo la macchina di buon’ora e vado alla stazione, dove ho intenzione di imbarcarmi su un treno per Pavia: vado a fare un po’ di ricerca bibliografica, e il fatto di riuscire ad arrivare in centro sana e salva, parcheggiare senza visibili danni per me o per il prossimo, avviarmi al treno con la mia valigetta in mano mi fa sentire una promettentissima ricercatrice in erba. Mentre faccio il biglietto allo sportello automatico mi compiaccio della mia professionalità, e sul treno guardo i giovani pendolari in completo e cappotto con un misto di complicità e soddisfazione, immaginandomi altrettanto distinta.

E’ perciò con estrema disillusione, e ovviamente con una dolorosa rabbia impotente, che arrivata in università a Pavia mi rendo conto di aver lasciato il bancomat nella biglietteria automatica. Merda. Fra l’altro il mio bancomat è anche una Visa, quindi il benefattore che se l’è intascato per ripulirmi il conto in banca non deve nemmeno fare la fatica di indovinare il codice. Merda merda merda. Blocco il bancomat, rivolgo una captatio benevolentiae ad un paio di santi fra i più influenti e cerco di organizzare la giornata in modo da riuscire a fare tutte le fotocopie che mi servono, nutrirmi e tornare a casa con i pochi spiccioli che ho in tasca.

Torno in città, alla mia auto, nel tardo pomeriggio, quando è già buio. Io non so guidare con il buio. O meglio: io non so guidare; il buio è un’aggravante. Ma vabbè, vado pianino e cerco di destreggiarmi nel traffico, e me la cavo piuttosto bene fino a che, poco fuori città, rimango bloccata in coda in prossimità di un passaggio a livello. Sarà chiuso, immagino; quindi aspetto dieci, venti, trenta minuti. Un po’ di auto davanti a me fanno inversione e tornano indietro, ma io sono paziente e attendo. Dopo quaranticinque minuti c’è gente a piedi che fa la spola fra il passaggio a livello e la propria macchina; chiedo informazioni: il passaggio a livello è rotto. Merda. Chiamo lo Gnu (sono a casa sua, in questi giorni) e gli chiedo un piano B per riuscire a tornare a casa, perché non conosco molto bene le strade della zona: “E’ facilissimo, torni indietro e a P. prendi la solita strada che passa per il paese di C. L’avremo fatta mille volte”.

Faccio come mi dice: faccio inversione e arrivata a P. prendo con decisione l’incrocio sbagliato, quindi mi ritrovo in tangenziale. Panico. La tangenziale è una strada veloce, porta lontano, porta ad Alba, io non so tornare da Alba, è buio, non c’è nessuno, non so dove sono, aiuto! Ritelefono allo Gnu che un po’ mi sfotte e un po’ mi instilla il timore di aver preso la tangenziale contromano, quindi sempre con rischi indicibili e traversie innumerevoli mi teleguida (come Ambra a Non è la Rai) fino al punto di partenza, dove prendo l’incrocio giusto e torno a casa ai 15 km/h con le ginocchia tremebonde e un certo delirio di persecuzione.

– Venerdì 

Se voglio un bancomat nuovo devo denunciare lo smarrimento di quello vecchio ai carabinieri, perciò venerdì monto in sella alla mia Seat del ’93 e mi dirigo con rinnovata baldanza (merito di una buona notte di sonno) verso la caserma più vicina, nel paese di M. Riesco anche a parcheggiare come Dio comanda, ma scendendo dalla macchina non so come inserisco il bloccasterzo, della cui esistenza ero peraltro completamente all’oscuro fino a quel momento: constatando che il volante non gira più e la chiavetta dell’accensione nemmeno, suono al campanello (sic) della caserma con le lacrime agli occhi e la totale convinzione di aver rotto la macchina. Mi apre un carabinierino in tuta, che si commuove della mia ignoranza in fatto di auto e dopo la denuncia (un’ora, argh) viene a sbloccarmi il volante e mi spiega cos’è, come funziona e soprattutto come si toglie questo fantomatico bloccasterzo.

“Fra l’altro, signorina, guardi che ha parcheggiato nello spazio riservato ai militari.”

Effettivamente c’è una riga gialla, ma io credevo che servisse solo a delimitare il parcheggio… Mi scuso, spiego che sto imparando a guidare e sono un disastro.

“Ma almeno ce l’ha la patente? Il foglio rosa??”

Ma no, che dice, sciocco carabinierino in tuta che non è altro, ho la patente da quasi dieci anni!

“Ah, quindi la P sul vetro non è per lei.”

[impallidisco, breve ripasso mentale della normativa sulla P] No no, non è per me, si figuri se può essere per me, io ho la patente da dieci anni! Ah ah!

“…”

Mi faccio spiegare la strada per tornare sulla statale, mi allontano con sicurezza e al primo incrocio giro decisamente dalla parte sbagliata, ritrovandomi di nuovo in mezzo al paese. Mi squilla il cellulare: “Signorina, sono il carabiniere, volevo dirle che ha girato dalla parte sbagliata!”

Mi ha controllata dalla finestra, l’infingardo. Millanto di avere qualcosa da comprare al supermercato in piazza, lascio passare un lasso di tempo sufficiente a rendere credibile la mia panzana, e poi faccio dietrofront.

Mezz’ora dopo sono a casa e trovo il mio fidanzato in cantina che suda copiosamente e ha in faccia una smorfia tiratissima. “Va tutto bene, non ti preoccupare, abbiamo un problemino, ha preso fuoco la canna fumaria.”

Merda. [Fra l’altro il giorno successivo dovevano venire i muratori a cambiarla, la stronza: ha colto l’ultima occasione per prendere fuoco.]

Per un’oretta la situazione rimane più o meno sotto controllo (con alcune scene surreali tipo lo Gnu che buca il muro col trapano per spruzzare acqua dentro la canna fumaria in fiamme), finché la mia dolce metà pensa di controllare lo stato dell’incendio aprendo una finestrella metallica che serve per l’eliminazione delle scorie. In mezzo secondo il camino sul tetto erutta un metro di fiamme. Chiamo i vigili del fuoco, lo Gnu chiama il suo amico G. che arriva con una scala lunghissima e si arrampica sul tetto. Mi dicono di annullare la chiamata ai pompieri, io eseguo ma con una certa titubanza: G., in equilibrio sulle tegole e nero di fuliggine, annaffia l’incendio con un tubo da giardino (di potenza equivalente ad una pernacchia) attraverso il camino. Imperterrito, continua a spruzzare il tetto, mentre le fiamme crepitano allegramente nel muro e le pareti della canna fumaria cominciano a creparsi: pare però che l’incendio si lasci prendere per stanchezza, perché dopo un paio d’ore la finestrella in cantina comincia a vomitare acqua sporca e blocchi gommosi di fuliggine solidificata (mista a Dio sa cos’altro) grandi come palle da tennis. Mentre il fuoco si ritira negli anfratti più incrostati, la cantina si va decisamente allagando. Lo Gnu spala via carrettate di sporcizia nera ridendo con una faccia da pazzo, mentre io e un altro amico rovesciamo segatura sul pavimento nel tentativo di arginare l’inondazione. G. è sempre sul tetto che spruzza, pare che si diverta anche un po’. Intanto il piano superiore comincia a trasudare umidità dal soffitto, mentre il terzo piano (sbarrato e deserto perché ancora da ristrutturare) comincia a sbriciolare mattoncini roventi che rotolano fumando fino giù in cantina.

Verso le undici e mezza di sera è finita, i muri sono ancora tiepidi e la cantina sembra una location de “La Fattoria”, ma l’incendio è moribondo.

Tutto ciò alla faccia di chi dice che la vita in campagna è rilassante. 

– Martedì scorso 

Ovviamente tutto quello che mi è successo nei giorni precedenti è ottimo materiale di intrattenimento, quindi l’ho raccontato a cani e porci; ho fatto un resoconto dettagliato anche alla professoressa che mi ha seguita per la tesi di laurea e con la quale più o meno tutti i martedì mattina mi intrattengo a chiacchierare in Dipartimento (a Genova, quindi). Amo soffermarmi soprattutto sull’incendio, che mi sembra particolarmente tragicomico, ma in realtà la disgrazia che mi ha infastidita di più è stato lo smarrimento-barra-furto del telefonino, perché, come ho già detto, soffro di una seria dipendenza da cellulare. Per supplire alla scomparsa del telefono dei Flintstones ho dovuto recuperare un vecchio Sony Ericcson (da usare come panchinaro) e assegnare la pole position di telefono primario al Samsung cha apparteneva a mia nonna, molto piccolo e quindi straordinariamente comodo da tenere nella tasca del mio giubbotto di jeans.

E infatti è proprio da quella tasca che un buonuomo con l’aspetto del pusher di quartiere me l’ha sottratto (e un giorno dovrà rendere conto a qualcuno di questo, ne sia consapevole) sull’autobus n° 35 sul quale sono salita martedì scorso verso le due e mezza in Piazza della Nunziata. La fermata era affollatissima; estraggo il biglietto dalla tasca (la stessa del telefonino, che in quel momento c’era), salgo, timbro, mi ricordo che devo fare una telefonata: la tasca è vuota, e così anche l’altra. Merda, merda, merda!!! Mi volto, esasperata, e dietro di me (a 5 cm di stanza) c’è questo tizio dall’aria equivoca che mi guarda sornione. Faccio due più due, comprendo, mi demoralizzo, ma gli chiedo dritto in faccia se per caso ha visto il mio telefonino, perché credo di averlo perso. Lo spacciatore del vicinato allarga un ghigno beffardo, e con uno sguardo eloquente spalanca le braccia. Ok, ci siamo capiti. Non mi sembra il caso di aggredirlo, né tantomeno di perquisirlo, anche perché alla prima fermata il losco personaggio scende e io rimango lì con la netta sensazione di essere al centro di una colossale candid camera.

Faccio l’ormai ben nota trafila per bloccare la scheda e al primo negozio di telefonia compro una scheda 3 per poter recuperare e utilizzare di nuovo il mio ultimo telefono, costretto alla pensione dal mio passaggio da H3g a Wind. Quindi ora ho tre schede e tre numeri di telefono, ma solo due telefoni ed entrambi vecchi e rotti. E va bene, un po’ sarà colpa mia perché sono stordita (quantomeno per il bancomat, che però è una storia a lieto fine: la carta non è più saltata fuori, ma il conto in banca è intatto), ma ho l’impressione che la sfiga ci stia mettendo del suo. Non avevo poi tutti i torti, forse, a temere la rivincita del karma…

Intervallo

Nell’ultimo, ormai antico, post avevo assicurato che avrei scritto qualcosa di nuovo entro le successive ventiquattr’ore.

Beh, sono state ventiquattr’ore piuttosto lunghe, a quanto pare. Non voglio giustificarmi. O meglio, sì, vorrei giustificarmi con qualche scusa inattaccabile che mi faccia sembrare meno pigra e inconcludente di quanto non sia, ma mi manca il materiale. Potrei dire di essere stata molto impegnata con lo studio, che sarebbe anche vero; potrei ricordare che passo poco tempo a casa, e anche quella è pura verità. Ma la realtà è che non ci sono con la testa, mi va di isolarmi un po’ e allora tiro (più o meno involontariamente) fuori quella tiraculaggine che è notoriamente uno dei miei peggiori difetti. Mi butto e poi tiro i remi in barca, a fasi alterne. Io mi conosco e non mi sforzo neanche di migliorare.

Per il momento sono in pausa.

Stop me if you think you’ve heard this one before

Lo so che tre righe piazzate lì non fanno un post. Ma ho davvero tanto da fare e sto passando davvero troppo poco tempo a casa per mettere insieme un pensiero dotato di senso, uno che valga la pena condividere. Ci proverò nelle prossime ventiquattr’ore. Nel frattempo, le mie uniche attività degne di nota sono studiare e drogarmi di musica (ho di nuovo diciassette anni?!).

Fra l’altro (alla buon’ora, dirà qualcuno) ho scoperto gli Smiths.

Così. Tanta. Bellezza.

Lo ammetto: è un mero riempitivo. Non volevo lasciare il blog abbandonato troppo a lungo, mi dispiace pensare che nei prossimi giorni, mentre mi trasborderò arruffata da un treno all’altro e giocherò alla filologa romanza con un misto di imbarazzo e interesse etologico per la fauna da convegno, gli sparuti passanti che faranno capolino sulla mia paginetta debbano sbattere il muso contro il solito post ammuffito e rancido.

E allora appiccico questo video, che tenevo lì da un po’ e che mi ha sempre arrotolato lo stomaco e quasi strizzato fuori una lacrimuccia. Un po’ è colpa della musica, un po’ è perché lì trovo quella meraviglia, quello stupore da bambini di cui si parlava un paio di commenti fa. Ecco che cosa desidero; tirarmi un poco indietro, dissociarmi da me e dal mondo, diventare puro sguardo e lasciarmi attraversare dalla bellezza che è dappertutto. Dissolvermi. Non sempre. Ogni tanto. Adesso, magari.

[Annoto: c’è una canzone di Niccolò Fabi che sto ascoltando a ripetizione, e che secondo me ha una una sorta di sotterranea sintonia con questo tema, con il senso di rivelazione e accettazione che si prova (almeno, io provo) a volte davanti alla realtà così com’è, nuda, semplice, assoluta e perfetta. Si chiama Oriente ed è molto bella, merita almeno un ascolto.]

Non svegliare il karma che dorme

Dividendo la mia vita fra due luoghi diversi, con abitudini e ritmi piuttosto differenti, ho un senso alquanto netto dello scorrere del tempo, che nella mia mente scandisco di settimana in settimana, di weekend in weekend. Involontariamente, ogni settimana mi ritrovo ad elaborare una sorta di bilancio minimo, una sommaria ricapitolazione di ciò che mi è accaduto, o di quello che attendo mi accada. Traggo conclusioni ed auspici, traccio grafici mentali, produco considerazioni. Poi comincio una nuova settimana.

Questo weekend ha prodotto per me una serie di piccoli fatti positivi, che non aspettavo. Per mia natura, e per una sorta di diffidenza acquisita negli anni, quando mi succede qualcosa di innegabilmente positivo temo per il peggio. In questo periodo, in cui sto inanellando una serie di piccoli successi di vario genere, alcuni concreti e tangibili, altri emotivi, attinenti più alle sensazioni e ai sentimenti che ai fatti, mi muovo circospetta come un gatto. Attendo le conseguenze da un momento all’altro, e sto in allerta per non farmi cogliere impreparata. Cammino con la schiena al muro, e contengo le emozioni per limitare i danni futuri.

Che il karma sia rotondo lo sanno tutti, e che giri come una ruota anche. Quello che nessuno ha il privilegio di conoscere, è quando il moto circolare trasformerà la sua ascesa in una discesa, quale sia l’apice della propria curva, il trionfo che implicitamente conterrà in sé, in nuce, la sua stessa disfatta. E’ l’enigma del giocatore, il cui talento sta, più che nell’accumulare, nel sapere quando sospendere le puntate, nell’avvertire l’impercettibile rallentare della ruota un attimo prima che il movimento si inverta e le posizioni si ribaltino, il sopra diventi sotto e il sotto sopra.

Quindi mi muovo cauta, più in silenzio che posso. Cerco di restare invisibile, di non attirare l’attenzione del mio karma annoiato che si è dimenticato di girare, e per un po’ si è appisolato in salita. Mi chiedo se facendo attenzione, badando a non urtare nulla, sia possibile scivolare fra le pieghe del proprio destino, ed evitare di saldare i propri conti, sgattaiolando tra un evento e l’altro come un viaggiatore senza biglietto. A volte mi compiaccio di pensare di aver già pagato più del dovuto, e di poter usufruire di un conguaglio illimitato, un risarcimento con gli interessi per quando la ruota girava sottoterra e io tiravo come una bestia da soma ad occhi chiusi e turandomi il naso. Talvolta invece mi balocco con l’idea che alcuni bilanci non debbano chiudersi in pari, e che la congenita ingiustizia del mondo possa, magari, giocare a mio favore.

La realtà è, credo, che i conti si pagano a rate, i più salati per lo meno. Le piccole gioie si compensano con gli spiccioli delle tasche, e quelle grandi con gli affanni che toccano a tutti. Nascere si paga morendo.

E’ forse inutile, allora, prepararsi al peggio, e portare in tasca un ombrello per pararsi la testa. Tanto pioverà il giorno in cui l’avrò dimenticato a casa. Ma l’abitudine è dura a morire, e io continuo a guardarmi le spalle e a tenere le finestre chiuse. Se non posso evitare il mio destino, voglio almeno vederlo arrivare.

Alive (and not really kicking)

Ieri ho ascoltato per la prima volta l’ultimo album (omonimo) dei Pearl Jam, e non mi ha convinta per niente. Ero partita molto prevenuta, perché le nostre strade (mia e dei Pearl Jam, intendo)  si sono divaricate già dai tempi di Yield, e io ho difficoltà a perdonare chi delude le mie aspettative, specie se si tratta di uno dei grandi amori della mia adolescenza: di fatto i miei Pearl Jam non ci sono più già da qualche disco a questa parte, come anche quest’album mi ha confermato.

Un baio di bei pezzi (non alla Ten, diciamo più alla No Code) ci sono anche qui: Unemployable e Army reserve (ma anche il singolo Life wasted non è male); però una cosa che detesto nei dischi è dover lavorare di coltello per scartare il grasso e tenere il buono, specie se poi è più quello che butti via di quello che ti rimane nel piatto…

E in fondo io i Pearl Jam voglio ricordarmeli sempre così (soprattutto Eddie Vedder, *sbav*), com’erano nel leggendario Mtv Unplugged del 1992, quando mi vestivo con le camicie da boscaiola canadese e tenevo svegli i vicini con la chitarra elettrica… una vita fa, praticamente.

[Dio benedica Youtube che semplifica così tanto la vita a noi miseri blogger poveri d’ispirazione. Allelujah.]

Sincronicità /2 (ovvero: le ragazze adorano gli unicorni)

Sfrutto questo inaspettato momento di lucidità per cogliere anche questa similitudine (o citazione, forse) che mi ha colpita ieri sera, nel senso letterale del termine: Alice nel paese delle meraviglie mi è caduto in testa mentre risistemavo Borges per controllare il titolo del racconto che ho menzionato nel post precedente. L’altra fanciulla con leone e unicorno, invece, fa parte del ciclo della Dame à la licorne: sei arazzi esposti al Musée de Cluny a Parigi, dove li hanno valorizzati meravigliosamente dedicando loro un’intera sala, e visti dal vivo sono davvero misteriosi e affascinanti. Non so come mi siano venuti in mente. Forse ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male. [Zzz.]

Scissor Brothers

Se non ricordo male, I Chemical Brothers l’hanno fatto prima. Quindi quello degli (dei? delle, trattandosi di sisters?) Scissor Sisters è un omaggio. O un plagio. O tutti e due (ora che anche Festivalbar li ha sdoganati, sarà certo più popolare la prima ipotesi.)

C’è da dire che gli (facciamo gli, e non se ne parli più) Scissor Sisters non avevano niente da perdere, i fan dei Pink Floyd avrebbero spezzato loro le gambe in ogni caso. E allora vai di avvitamenti subacquei e meduse lampeggianti a ritmo di musica. Beh, in The test c’era di più, altri quattro minuti di splendido delirio lisergico (anche qui canta Richard Ashcroft. Si vede che oggi è la sua giornata).

Però a me la cover di Comfortably numb piace parecchio. Irriverente, irrispettosa, coraggiosa. Con un ritmo che ti tarantola le gambe e dei falsetti neo-beegees che ti perforano l’encefalo. L’ho ascoltata parecchio all’epoca, e ha fatto da sottofondo ad ore ed ore di pedalate in cyclette (The test, invece, era la colonna sonora dei miei viaggi in treno, all’imbrunire, con il tramonto reso accecante dall’intermittenza delle gallerie e il cielo che si aggrottava curvo sulle montagne sopra Genova) . E in fondo, l’originale non la tocca nessuno, è sempre lì. Certo che è un’altra cosa, ma le cover rispettose di solito fanno la fine del Don Chisciotte nel racconto di Borges (“Pierre Menard, autore del Chisciotte“; è in Finzioni): riscritte uguali, parola per parola (note per nota). Tautologiche, ridondanti: superflue.

E allora onore al merito di chi ha il coraggio di appendere a testa in giù un capolavoro.

Sincronicità

 Synchronicity is a word coined by the Swiss psychologist Carl Jung to describe the “temporally coincident occurrences of acausal events.”

[…] It differs from coincidence in that synchronicity implies not just a happenstance, but an underlying pattern or dynamic that is being expressed through meaningful relationships or events.

Ecco perché, qualche anno fa, mi sono imbattuta in questo

mentre leggevo questi:

L’ultimo l’ho prestato, e non è mai tornato indietro (peccato mortale compiuto da una mia cara amica). Non ho il coraggio di ricomprarlo, tanto non lo rileggerò mai, e mai più sfoglierò i due libri rimasti: mi hanno fatto piangere come una fontana, cosa che non è da me e non mi si addice (ricordo distintamente un’immagine orribile: io, in treno, infagottata nel cappotto, che leggo con le lacrime che mi rigano le guance, mentre una signora seduta di fronte a me mi scruta con disgusto. Erano tempi bui, è vero, ma è comunque una scena indecorosa).

Sono i libri più terrificanti che abbia mai letto, e mi sconvolge l’idea che siano considerati letteratura per ragazzi: meravigliosamente concepiti e scritti, ma strazianti. Mentre li leggevo avevo la sensazione che non ci fosse più speranza al mondo. I due supersiti li ho nascosti in fondo ad uno scaffale, perché la loro sola presenza mi inquieta.

Anche il video di “Check the meaning” mi ha capovolto l’animo. Credo che il senso profondo sia lo stesso: il divino che irrompe nel quotidiano, non come luminosa epifania, ma come ineluttabile constatazione che i fondamenti stessi dell’universo stanno cadendo a pezzi (un uomo trova un angelo: ma è un angelo morto; e quando gli angeli cominciano a morire vuol dire che il mondo sta finendo). [Sensazioni simili le ho provate vedendo non so quale puntata di Neon Genesis Evangelion, quando un Eva si “sveglia” e gli umani impotenti lo osservano divorare la carcassa dilaniata di un angelo. Ma in realtà tutto NGE parla di questo: il velo della realtà quotidiana che si squarcia per lasciar scorgere l’immenso buio che ci circonda. Il trascendente si rivela solo alla fine, quando né per Dio né per l’uomo c’è più speranza.]

Non so perché tutto questo mi sia venuto in mente in una giornata splendida (sole, fresco, casa vuota e silenziosa) come oggi. Non c’è motivo. Comunque presto uscirà il primo film tratto da “Queste oscure materie”, e so che andrò a vederlo e resterò angosciata per un po’. Angoscia catartica, spero.

[Alla sincronicità dovrei dedicare un po’ più di riflessione, è uno di quei bei concetti cosmici che mi piacciono tanto. Ho letto da qualche parte che Jung la definiva un'”esplosione di significato”, improvvisa e inaspettata. Anche lì, il velo che si squarcia; la grande mano di Dio che rompe la volta del cielo; il mondo tridimensionale che si dispiega in una quarta (e una quinta, e una sesta…) dimensione. Affascinante. Affascinante e terrificante. Più che altro terrificante. Brrrr.]

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