Archive for Everybody’s weird

Lost Team of Friends!

Probabilmente sono l’ultima ad averli scoperti, ma non sono davvero buffi?
[Da struzzo.tv]

[Attenzione però: sono un po’ spoilerosi per la seconda stagione, e forse in qualche dettaglio anche per la terza.] 

De arte bloggandi

Ok, tanto per rassicurare (non so esattamente chi, ma tant’è): sono viva e vegeta e non ho perso l’uso della parola (scritta). Solo sono discontinua, come sempre; e ora sono in fase… afasica.Scrivere per forza non è bello. Non ne può venir fuori niente di buono. Ecco infatti

10 buoni motivi per cui non dovrei scrivere su questo blog 

  1. Questo blog sta diventando un metablog: un blog sul quale scrivo dello scrivere in un blog. Ciò significa che sto grattando il fondo del barile. Mi ripeto: non ne può venir fuori niente di buono.
  2. Ho delle cose da fare che sto trascurando. Se accendo il computer è finita, mi perdo per un’ora; quindi meglio saltare il problema a piè pari e lasciare il pc spento.
  3. Devo cambiare gli occhiali. Ora, se sto davanti al pc con le lenti a contatto queste dopo un po’ diventano lattiginose e di una consistenza simile a quella della marmellata [non so perché, prima non mi succedeva; dev’essere una sorta di complessa vendetta cosmica che ogni tot anni mi dà dei problemi con le lenti a contatto e mi costringe a passare a modelli più sofisticati. Da qundo la cornea mi si è sensibilizzata a macchia di leopardo costringendomi ad andare in giro con due occhi da eroinomane (gli occhiali mai, piuttosto la morte o la cecità) ho adottato le biocompatibili; ora non so, ne farò un paio bioniche]. Quindi almeno quando uso il computer indosso gli occhiali. Però li odio, li maltratto e il più delle volte mi addormento tenendoli ancora sul naso, fatto documentato da più e più foto con le quali la mia dolce (dolce sti *****, mon amour) metà mi ricatta regolarmente; in più mi ci sono pure seduta sopra più di una volta. Di conseguenza, le lenti sono rigate in maniera ormai pressoché uniforme; e più che vedere intuisco la presenza di immagini al di là del mio naso. E’ l’ora di rifarli, ma è un passo che non posso prendere tanto alla leggera perché come minimo sarò costretta ad accendere un mutuo o rivolgermi ad uno strozzino: come per quelle a contatto, le lenti normali non vanno bene, ci vogliono di un materiale particolare infrangibile e supersottile per evitare l’effetto fondo di bottiglia (sì, sono molto miope). Ovviamente costano un occhio della testa, perdono l’antiriflesso dopo circa cinque minuti e vanno necessariamente accompagnate da una montatura figa possibilmente di qualche stilista poco noto ma di ottime speranze. Rinunciare al computer è decisamente più pratico ed economico.
  4. Sono logorroica. Per esprimere un concetto semplice (come “devo rifare gli occhiali”) impiego un paragrafo lungo e involuto con mille subordinate incastrate una dentro l’altra, e due ordini di parentesi (tonde e quadre). Permettermi di tenere un blog è come mettermi in mano una molotov.
  5. La mia gatta vive sulla tastiera del pc. Per scrivere dovrei spostarla, e ciò la infastidisce. E’ anche un’operazione difficile, perché come tutti i gatti tende ad abbandonarsi a peso morto raggiungendo il peso specifico della della criptonite; e alla fine i tasti rimangono felpati, con tutto il pelo in mezzo (e non si riesce più a premerli bene). Forse dovrei comprarle una tastiera sua, non so.
  6. Se scrivo, sto seduta a lungo. Se sto seduta a lungo, mangio. Se mangio, ingrasso, e in più, siccome sto cercando di rinunciare quasi definitivamente ai dolci* (lo so, lo so, ma dal momento in cui è finito il mio fioretto mi sono strafogata in maniera indecente, e mi disgusto da sola; poi devo ammettere che quando non ne mangiavo mi sentivo molto meglio, e soprattutto sono tornata quarantotto chili senza sforzo) mi strafogo di yogurt, frutta e cereali col risultato che il mio apparto gastrointestinale diventa ipercinetico. E in generale, ciò non è un bene. *[Nuova collezione Domori esclusa. Per quella farò una (alcune) (molte) eccezioni.]
  7. Sono stanca, svogliata, apatica. Tenere un blog non dovrebbe essere un dovere; dovrebbe soddisfare un’esigenza di condivisione, di comunicazione. Io al momento non ce l’ho. Ho abbastanza voglia di farmi i fatti miei.
  8. Un blog veicola un’immagine dell’autore. Che immagine di me voglio dare? Che immagine di me sto dando? Non lo so, in nessuno dei due casi. E soprattutto, voglio che il mondo (beh, in concreto una parte infinitesimale del mondo, ovviamente; ma potenzialmente tutto il mondo) sappia delle cose su di me? Non ne sono certa. E soprattutto, temo di non risultare nemmeno lontanamente figa quanto vorrei. Su questo dovrei meditare.
  9. Forse un blog dovrebbe avere un concetto forte alla base, una linea editoriale, se vogliamo. Quella del metablog potrebbe anche essere un’idea. Non particolarmente fertile, probabilmente, ma se qualcuno è riuscito a fare un blog su Snakes on a plane… In ogni caso, per il momento questo blog è poco più che un’accozzaglia di ripetizioni e congiuntivi mancati.
  10. A questo punto non posso più negarlo: soffro di cervicale. Ho delle vertigini improvvise che neanche sull’ottovolante. Devo smettere di addormentarmi dappertutto, in treno, al cinema, sul divano: soprattutto devo smettere di addormentarmi seduta, o dovrò assumere un chiropratico. Scrivere sulla tastiera del computer è una tortura, dopo un quarto d’ora perdo la sensibilità alle mani e comincia un dolore sordo dalla spalla destra al gomito. Sto inesorabilmente invecchiando. Tunnel carpale, arrivo.

10 days, 2 weeks

Sono tornata. Dopo dieci giorni via in due posti diversi, entrambi posti che in qualche modo considero casa, ora mi sento a disagio nella mia casa ufficiale. E’ un fenomeno che conosco bene e che mi sembra in qualche modo analogo alla nausée di Sartre; si tratta di una specie di spersonalizzazione, di oggettivazione brutale per la quale di colpo vedi le cose e le persone che ti sono familiari spogliate dal filtro emotivo che generalmente le accompagna, come fossero nude. E’ una sensazione scomoda e spiacevole, ma ha di positivo che passa presto, e molto probabilmente domani a mezzogiorno sarò veramente a casa. A parte questo, le cose vanno piuttosto bene, e ho ancora addosso quel fervore settembrino che mi fa venire voglia di rifare il guardaroba e cambiare colore di capelli. Non ho tanta voglia di scrivere, quindi riporterò solo qualche fatto saliente in modo schematico, giusto per non lasciare buchi spazio-temporali.

– Ho dato un’occhiata alle statistiche del blog. L’attività langue, zero commenti, e poche visite. Però per qualche ragione il diciotto agosto un mucchio di gente è passata di qui. Io non c’ero. Mi sarò persa qualcosa, che so, un party?

– Ho un nuovo gatto, in comproprietà con lo Gnu. E’ una micia rossa (fatto quantomai raro, mi dicono)e con gli occhi marroni, di due mesi e mezzo o forse tre, che ha adottato me e i miei genitori appena abbiamo aperto casa in Emilia. Non potendo portarla a Genova perché i miei due gatti morirebbero di sdegno e gelosia, e perché già così la casa è un buco caotico, io e lo Gnu l’abbiamo portata da lui, dove si aggiungerà alla comunità di gatti che già circonda la sua cascina, ma in un ruolo privilegiato, un po’ da reginetta. Almeno, io vorrei così, ma credo che lo Gnu preferisca un trattamento più democratico. Penso che opteremo per una soluzione di compromesso, cioè io la vizierò in maniera vergognosa e lui in mia presenza fingerà di metterla in riga; poi, quando io sarò via, la vizierà vergognosamente anche lui. L’abbiamo chiamata Gatto-mè, come la micia nera che ci è morta di leucemia felina qualche mese fa, buonanima.

– Dopo dieci giorni in compagnia di gatti normali, di cui uno cucciolo, ho di colpo realizzato che i miei mici di Genova sono giganteschi. Non solo il maschio, quello di 14 kg, ma anche la femmina: è qui che dorme sul tavolo accanto al computer e mi fa un po’ impressione. Ha una testa enorme, è pelosissima, sembra un piccolo grizzly: e dire che prima di partire mi sembrava piccola e gracile.

– I giorni in Emilia sono stati piacevoli, anche se pioveva, c’erano tredici gradi e il costume è rimasto in valigia assieme a canottiere e sandali. Ma è stata dura mettere le mani nei cassetti di mia nonna, svuotare e sgomberare, appropriarsi di casa sua. Quando sono ripartita lasciando lì i miei genitori ho avuto la sensazione dolorosa dell’avvicendamento delle generazioni, del tempo che si arrotola a spirale in cicli sempre uguali; ma in qualche modo lì, nel paesino della mia famiglia, tutto mi sembra pacifico e naturale, come se le cose seguissero il loro corso senza sussulti né drammi, e gli eventi si dispiegassero placidamente in curve ampie e morbide. Guardando le foto nel piccolo cimitero di campagna, l’unico nel quale riesca a mettere piede senza che l’ansia mi salga sulle spalle, avevo a volte l’impressione di essere in una foto anch’io, e mi immaginavo immobilizzata per sempre in un broncio o in un sorriso che qualcuno stesse sbirciando da un’altra piega del tempo. E svuotando cassetti pieni di legacci o di saponette o di stracci per la polvere mi è capitato di pensare a quello che troverà, di me, chi ripulirà i miei armadi. Penso alle quattro cianfrusaglie che tengo lì per affetto, i salvadanai vuoti e le sorprese dell’uovo di Pasqua,  le boccette con poche gocce rimaste di profumo, le sveglie che non funzionano più. Mi chiedo se qualcuno le guarderà con la stessa tristezza e il compatimento, la tenerezza per le buone cose di pessimo gusto, che provo io riponendo i mille santini e le foto di chi non c’è più nel primo cassetto della credenza di mia nonna.

Mi rendo conto di non aver scritto niente di saliente, nessun fatto, quasi. Si vede che doveva andare così, d’altra parte le vacanze servono a questo, ad allungare i giorni, a renderli più spaziosi per guardarci bene dentro, e, una volta tornati a casa, rendersi conto che a volte succedono più cose quando non succede niente. Sono stata un po’ isterica nei giorni passati, ma ora mi sento più tranquilla, più risolta. A mettere in ordine i pensieri ho di nuovo la rassicurante sensazione che le cose vadano abbastanza per il verso giusto, anche mettendo le cose brutte e tristi nel bilancio. Ho un po’ di preoccupazione per quello che troverò dietro la prossima curva, ma per ora, questo senso caldo e confortante di fiducia, non me lo può proprio togliere nessuno.

Trivia /2

Lo so, è un mezzuccio bieco e abbondantemente già sfruttato. Ma vale comunque un’occhiata, perché alcuni casi sono davvero singolari e inquietanti. Quindi, ladies and gentlemen, ecco cosa dovreste digitare in un motore di ricerca se mai voleste raggiungere questo blog.

Manuale corso autodidatta chitarra – Ok, questo lo capisco, prima di spendere i soldi per il manuale (al corso ha già rinunciato, visto che è autodidatta) vuole essere sicuro di cosa offre il mercato, sperando magari di imbattersi in un sito che spieghi tutto gratis. (Aspirante) musicista bohémien.

Dipingere pooh – Ma non intenderà mica il gruppo?!

Fermate love ne austri – ?! Non capisco. Non capisco né il significato, né cosa c’entri tutto ciò con il mio blog. Si accettano suggerimenti.

Sesto senso dell’infermiere – Questo è interessante. Si vede che ho sempre sottovalutato gli infermieri.

Gastrite yogurt fa bene – Non saprei. Così su due piedi direi di no, i latticini in genere sono considerati poco digeribili. E, come ho detto altrove, si sa che lo yogurt gonfia. Magari prova con lo yogurt delattosato.

Parola patetica + significato – Questo cerca due piccioni con una fava: per qualche motivo vuole che gli si suggerisca una parola patetica e che se ne spieghi pure il significato (dovrà scrivere un sms strappalacrime ma il suo lessico sarà troppo limitato?). Immagino che non sia rimasto deluso: in questo blog di parole patetiche se ne trovano a volontà.

Significato della novocaina – Quanto al significato della parola (ma nessuno ha più in casa un dizionario??), bé, è un anestetico, mai stato dal dentista? Se invece cerchi un profondo senso metaforico… chiedi troppo. Prova su Wikipedia.

Last but not least: uno stronzo è arrivato su questo blog digitando in qualche motore di ricerca “ragazzini xxx“. Spero che fosse solo una curiosità per verificare se materiale del genere sia veramente accessibile e diffuso come si dice. In quel caso è un gioco stupido, e gli auguro una visita della polizia postale e, perché no, anche del fisco. In caso contrario, sono profondamente disgustata e non ho parole. Anzi, ne ho tre: mi-fai-ribrezzo.

L’allegra sagra del colpo di frusta

Sono tutta un livido.Perché sono stupida, ovviamente; le persone intelligenti smettono di andare sugli autoscontri a tredici anni. Io no: io comincio a ventisette. E ci vado con scarpe nuovissime (le stavo inaugurando) e con un tacco di nove centimetri che mi rende instabile da ferma, figuriamoci su un veicolo monoruota spintonato in tutte le direzioni da un branco di pazzi sadici.Però è divertentissimo: con la mia manciata di gettoni in tasca e il piede pronto sul pedale mi sono sentita proprio felice e spensierata. Per trenta secondi. Poi tre o quattro macchinine lanciate a folle velocità mi hanno stritolata contro un angolo della pista colpendomi in tutti gli angoli e sbatacchiandomi come un pupazzo da crash-test. Ho provato a vendicarmi, ma guidare un autoscontro non è facile come sembra: c’è questo volantino leggerissimo che gira solo a guardarlo, e come gli imprimi la minima rotazione continua a muoversi da solo; poi c’è la questione del pedale che secondo me è da chiarire perché l’automobilina va anche se non lo schiacci, apparentemente alla medesima velocità, quindi a cosa serve?; e infine c’è la variabile retromarcia, che si innesca da sola se il volantino viene ruotato eccessivamente in un senso e nell’altro, a quanto mi è stato spiegato perché sotto la macchinina c’è un’unica grossa ruota e girandola di 180 gradi si inverte il senso di marcia.

Insomma, è roba da esperti, e io che ho fatto giusto ieri i miei primi 50 km da automobilista (con la mia roboante Seat Marbella del ’93) non posso competere con dei ragazzini incattiviti che impennano su due ruote da quando avevano dieci anni, né tantomeno con dei trentenni ubriachi che mentre si tamponano si lanciano sputacchi e palline di carta. Però i miei dieci-dodici spintoni li ho dati pure io e ne porto i segni: macchie bluastre su braccia e ginocchia e una certa rigidità del collo. Ferite di guerra. Prometto di rifarmi alla prossima festa di paese.

Finalmente ho anch’io un mio perché

Ho difficoltà a realizzare di aver messo davvero un piede nella porta. Continuo ad aspettarmi da un momento all’altro un’e-mail di questo genere: 

“Gentile Dottoressa **** [perché in questi contesti universitari ci si chiama sempre col titolo accademico, altrimenti quando mai si avrebbe occasione di usarlo?],

siamo desolati nel doverle comunicare che la sua accettazione nella Scuola di Dottorato ecc. ecc. è stata generata da un clamoroso scambio di persona, e pertanto invalidata. Riconsiderando la sua prova d’esame abbiamo constatato quanto Lei sia ontologicamente inadatta ad accedere alla nostra Università, e converrà Lei stessa quanto sia palesemente opportuno escluderla. Si consideri quindi rifiutata con ignominia e ci faccia la cortesia di non farsi più vedere.

Distinti saluti  

Il collegio docenti ecc. ecc.” Per il momento però non è arrivato niente (tranne le solite e-mail con consigli per l’allungamento del pene, che, è forse bene ricordare, io non ho; la singolare novità di offerte di partecipazione a loschi investimenti in paesi del terzo mondo, nel ruolo di prestanome e con l’opportunità di fantasmagorici guadagni; una lettera nella quale mi comunicano che la Coca Cola Company mi ha sorteggiata vincitrice di un non meglio specificato concorso,  e quindi ho diritto ad un premio di 80.000 sterline per ritirare il quale non devo fare altro che inviare una mail con tutti i miei dati anagrafici, codice fiscale e coordinate bancarie).

Quindi pare proprio che sia vero. Ora so cosa sono: sono una dottoranda. Ho un ruolo, una definizione. Ho un mio perché. D’ora in poi (e se Dio vuole, per i prossimi tre anni), quando mi chiederanno cosa faccio nella vita potrò dare una risposta, secca, precisa, senza tergiversare confusamente per spiegare che sì, faccio una cosa, ma in realtà ne vorrei fare un’altra, e forse sì, se avrò modo, se avrò fortuna, c’è sempre quest’esame, ma è dura, ma se poi non mi prendono c’è quest’altra cosa, e comunque… No: tre parole: sono-una-dottoranda.

Ci sarebbe forse da spiegare in cosa, ma è difficile, ai miei genitori cerco di spiegarlo da almeno un paio d’anni ma non c’è verso, e comunque non è che al mondo importi poi molto che cosa fai davvero; importa classificarti, metterti un’etichetta, collocarti in un’area mentalmente individuabile. Conta fornirti di coordinate, e ora io ce le ho, cazzo.

Sono-una-dottoranda. Appena riesco (metà, forse fine, settembre) mollo il lavoro. Perché già, forse non l’ho spiegato; mi fanno fare il dottorato e mi pagano pure (poco, ma è tutto grasso che cola): farò la filologa romanza a tempo pieno. Incredibile. Dopo anni di studio ritagliato mentre avrei dovuto fare qualcos’altro (lavorare, dormire), ora avrò il tempo di stare veramente sui libri. E sui dizionari, e sui manoscritti. E davanti al portatile. Roba da matti. E’ da mercoledì sera che ogni tanto, mentre faccio dell’altro e senza alcun motivo apparente, mi viene da ridere. E’ che sono contenta, ancora non ci credo. Per una volta non mi hanno strappato il giocattolo dalle mani.

Beh, comunque c’è anche altro al mondo: non è che il pianeta adesso si sia messo a girare al contrario. Quindi dirò che io e la guida cominciamo finalmente a capirci reciprocamente un po’ meglio, e che il cucciolo cresce e diventa schizzato come temevo, e ha il la faccia lunga come un lupacchiotto e buffamente spettinata perché la mamma dello Gnu l’ha tosato. Ai primi caldi lei comincia a tosare un po’ tutto quello che le capita a portata di forbice: cani, gatti, galline. Tutti gli animali che razzolano per il suo cortile hanno l’aria scarmigliata e un po’ depressa, come se si vergognassero di essere stati conciati in quel modo.

Continua a fare un caldo schiatto. Mercoledì sera sono tornata da Siena (quattro ore e mezza di treno, due cambi) sciolta e gelatinosa, coi vestiti appiccicati addosso e i capelli annodati. Ho viaggiato con una buffa ragazzina danese, che non parlava italiano e faceva il mio stesso percorso. Ci siamo conosciute sul treno che da Siena andava ad Empoli, mentre un signore cercava di spiegarle in inglese che avrebbe perso la concidenza per Pisa per colpa del ritardo che stavamo accumulando; era sola e spaventata, anche lei andava a Genova, e così l’ho adottata. E’ pazza ma simpatica, e alla fine ci siamo scambiate gli indirizzi e-mail così quando torna in Italia a settembre magari ci rivediamo. O più probabilmente no, queste cose il più delle volte muoiono lì. Vedremo.

Intanto mercoledì è stata davvero, davvero una giornata strana. La foto mentale che mi rimarrà è quella di noi eletti, felici e vittoriosi, che ci spintoniamo fuori dalla facoltà urlando “campioni del mondo”.

Davvero, questa è l’ultima cosa che dovrei fare

Dovrei stare studiando (si può dire?). Questo perché martedì l’altro ho questo esame che probabilmente non passerei neppure se lo stessi preparando da 6 mesi, e invece lo preparo da tre settimane, di cui una di vacanza. Però mi fa tristezza vedere l’ultimo post vecchio e muto, e in fondo qualche cosa da scrivere ce l’avrei, se solo avessi la freschezza e la voglia di mettere i pensieri in ordine.

Dato che un un ordine in effetti ci vuole, altrimenti le parole si farebbero sopraffare dalla loro innata entropia e si agiterebbero stupidamente come particelle gassose, ne prendo uno a caso: anticronologico. Dirò quindi che ieri ho letto Fight club e mi ha delusa (orde di fan di Palahniuk, attaccate). Non che sia brutto, ma mi aspettavo un capolavoro e invece leggendo mi sono resa conto che il capolavoro è il film. Il film senza il libro è grandioso; il libro senza il film è così così. Il film con il libro è una genialata perché come diavolo ha fatto David Fincher a tradurre visivamente certe scene (una per tutte, il catalogo dell’Ikea) con un’ispirazione così lucida e laterale lo sanno solo lui e il dotto biliare di Tizio. Ma il libro, preso di per sé… anche lo stile, queste ripetizioni, questi pensieri forzati che spezzano il discorso e lo rendono doppio, dissociato, schizofrenico: l’idea è gustosa, ma la resa è ripetitiva. Forse non posso apprezzare lo spunto dirompente perché sapevo già la storia, ma comunque rimane l’impressione che il film abbia aggiunto, anziché sottrarre. Sei meno meno. Meno.

Sono stata in vacanza. Con lo gnu. Io e lo gnu siamo di nuovo pane e burro. Non serve dire nient’altro.

Campioni del mondo. Ho visto la finale in un ristorante dell’isola di Vir, riviera di Zadar, Croazia. Con commento in croato, e un paio di simpatizzanti con la maglietta di Totti; il resto del ristorante era gremito di agguerritissimi tedeschi, improvvisamente divenuti filofrancesi (e l’Alsazia, dico io? e la Lorena? e la Saar?! dannati voltagabbana). Ho sudato sofferto e alla fine saltato di gioia, ma io e lo gnu ci siamo dovuti scambiare la soddisfazione della coppa fra noi, e al massimo con qualche sparuto turista italiano di passaggio. Mi è mancata moltissimo la tv satellitare (che nell’appartamento non c’era, dannati siti internet falsi e traditori) e anche i giornali, che lì arrivano alle cinque del giorno dopo e non hanno più lo stesso sapore; però i miei genitori mi hanno tenuto da parte una settimana di Corrieri della Sera e Secoli XIX, più una Gazzetta dello Sport, un Tuttosport e un albo speciale di Repubblica. E la videocassetta della finale con il commento Rai, Dio li benedica.

(Fra l’altro io il calcio lo odio. Ma questo non esserci mentre tutto il paese, per una volta, era contento e soddisfatto… Fra l’altro credo di avere una mezza cotta per Zidane. Questo perché sono un bastian contrario.)

Promemoria: la prossima volta, se si affitta una casa al mare, NON prenotare MAI PIU’ una baita. Lo credo bene che la Gioconda sopra il letto sorrideva. Ci prendeva per il culo.

Mentre non c’ero mio papà si è tagliato lavando un’insalatiera. Cinque punti. (Dovere di cronaca.)

Fa un caldo schiatto. Mi tengo su a integratori vitaminici e ventilatore. Anche l’Adsl va più lenta, come la gente che cammina in quest’aria densa come un liquido. Ho deciso che questa settimana mi alzerò alle sei ogni mattina, per sfruttare l’unico momento in cui il mio processore mononeuronale è a temperatura ottimale per lo studio. E studierò anche in negozio, nel fresco artificiale del condizionatore, anche perché il capo è in ferie e la sostituta non è molto incline a sostituirmi. Dopotutto è una settimana o poco più. A pensarci mi si stringe lo stomaco.

Chiudo con un aggiornamento: il famoso lavoro me lo volevano dare, ma ho detto di no. Ho detto che voglio provare prima quest’altra strada, darmi una possibilità, per non rodermi dopo nel rimpianto. Semmai mi roderò nel rimorso, per una volta. Comunque mi hanno detto che bla bla bla, se mai dovessi cambiare idea, bla bla bla, porta sempre aperta, bla bla bla, lieti di collaborare, bla bla bla. E’ finita a tarallucci e vino, insomma. Meglio così, un piano B serve sempre.

Questo l’ho fatto io…

…con artpad

Fenomenologia del cliente distratto

Oggi in negozio almeno una decina di clienti mi hanno salutata con inconsueto calore: “Bentornata!” “Ma allora è tornata!” “Meno male che c’è lei, pensavo se ne fosse andata!”

A parte il fatto che vorrei tanto essermene andata (oh, come lo vorrei), è tutto come al solito, non sono andata in vacanza né mi sono messa in mutua, non capisco perché mai la gente si sia fatta l’idea che io sia mancata per un po’. Poi guardo l’agenda, e vedo che sabato il mio Capo, come capita sempre più spesso, ha deciso che qualche impegno improrogabile tipo costruire uno scaffale di compensato spinoso o installare una stufa a pellets gli avrebbe impedito di presentarsi al lavoro, e quindi ha chiamato in sostituzione la mia Sostituta, appunto. Di qui il fraintendimento: faccia nuova, avvicendamento sul posto di lavoro. In effetti anch’io ho come un leggero sentore che mi stiano facendo le scarpe, acuito dal fatto che di tanto in tanto quando telefono in negozio per dire qualcosa al Capo (faccio uno strano part-time diagonale, io e il Capo non ci incontriamo quasi mai), mi risponde una voce femminile.

Io: “Pronto! Ciao, Capo!”

(Voce inequivocabilmente femminile, imbarazzata): “Ehm, ciao!”

Io: “…” (Silenzio sospettoso, seguito da un click. Malefica Sostituta! Me l’hai fatta di nuovo!)

Non si pensi male, il lavoro non lo sopporto più, e la Sostituta mi sta pure simpatica. Ma non ho altre fonti di sostentamento, ora che mia zia mi ha sospeso i contributi universitari (sì, mi sono laureata, ma è ingiusto lo stesso: e il ristagno del mercato del lavoro? E il precariato esistenziale?)

Comunque, quello che mi dà più fastidio di tutta questa storia non è tanto che i clienti mi diano già per licenziata, quanto il fatto che negli ultimi quattro anni non vedendomi in negozio il sabato non abbiano mai fatto una piega. Si accorgono solo ora che IO DI SABATO NON LAVORO?

Ho un armadio pieno di aneddoti simili. Se lavori in un negozio piccolo la gente si fa l’idea che fra te e il resto del personale ci debba essere per forza qualche relazione familiare, o almeno qualche sotterfugio strano. Riferendosi al mio Capo: “Suo marito…” (ma insomma!), “Suo padre…” (io ho ventisette anni e il Capo quarantadue. Va bene che lui si sta stempiando e io sembro più piccola, però…), “Il suo collaboratore…”, “Il suo collega…” (ho un’aria autorevole, ma il negozio non è mio. Nemmeno lo vorrei, questo buco caotico!).

E poi non ti vedono neanche. Non ti salutano, entrano telefonando e ti fanno segno con la mano di aspettare (grrr…), si acquattano nell’ombra finché non spegni le luci per poi entrare sibilando trionfanti: “Ma sta GIA’ chiudendo?”… No, cari, HO GIA’ CHIUSO, luci spente uguale negozio chiuso, non crederete mica che viva qui, che dorma su una branda nel retro, o sì?

Ti vedono tutti giorni e non sanno neanche come sei fatta di faccia: prima dell’avvento della Sostituta (quando cioè in negozio c’eravamo solo io e Capo, ed è difficile confonderci), mi capitava spesso che qualcuno entrasse e mi dicesse: “Sa, sono venuto l’altro giorno, ma non c’era lei, c’era quell’altra signorina…”. Per l’amor del cielo, QUALE altra signorina??? Ci sono solo io! E poi veniva fuori che ero sempre io, ma invece dei capelli sciolti avevo i codini o un muccetto.

Grazie al cielo non sono proprio tutti così. Salvo giusto il Professore che mi ha portato un Tau da Santiago di Compostela (non sono molto credente, ma non si sa mai) e la vedova del Magnifico Rettore che si mangia le parole e si interessa dei miei studi; e anche quella signora che gambizzerei perché mi tocchigna sempre le spalle, ma mi chiama sempre Dottoressa. Son soddisfazioni.