Archive for September, 2006

Non svegliare il karma che dorme

Dividendo la mia vita fra due luoghi diversi, con abitudini e ritmi piuttosto differenti, ho un senso alquanto netto dello scorrere del tempo, che nella mia mente scandisco di settimana in settimana, di weekend in weekend. Involontariamente, ogni settimana mi ritrovo ad elaborare una sorta di bilancio minimo, una sommaria ricapitolazione di ciò che mi è accaduto, o di quello che attendo mi accada. Traggo conclusioni ed auspici, traccio grafici mentali, produco considerazioni. Poi comincio una nuova settimana.

Questo weekend ha prodotto per me una serie di piccoli fatti positivi, che non aspettavo. Per mia natura, e per una sorta di diffidenza acquisita negli anni, quando mi succede qualcosa di innegabilmente positivo temo per il peggio. In questo periodo, in cui sto inanellando una serie di piccoli successi di vario genere, alcuni concreti e tangibili, altri emotivi, attinenti più alle sensazioni e ai sentimenti che ai fatti, mi muovo circospetta come un gatto. Attendo le conseguenze da un momento all’altro, e sto in allerta per non farmi cogliere impreparata. Cammino con la schiena al muro, e contengo le emozioni per limitare i danni futuri.

Che il karma sia rotondo lo sanno tutti, e che giri come una ruota anche. Quello che nessuno ha il privilegio di conoscere, è quando il moto circolare trasformerà la sua ascesa in una discesa, quale sia l’apice della propria curva, il trionfo che implicitamente conterrà in sé, in nuce, la sua stessa disfatta. E’ l’enigma del giocatore, il cui talento sta, più che nell’accumulare, nel sapere quando sospendere le puntate, nell’avvertire l’impercettibile rallentare della ruota un attimo prima che il movimento si inverta e le posizioni si ribaltino, il sopra diventi sotto e il sotto sopra.

Quindi mi muovo cauta, più in silenzio che posso. Cerco di restare invisibile, di non attirare l’attenzione del mio karma annoiato che si è dimenticato di girare, e per un po’ si è appisolato in salita. Mi chiedo se facendo attenzione, badando a non urtare nulla, sia possibile scivolare fra le pieghe del proprio destino, ed evitare di saldare i propri conti, sgattaiolando tra un evento e l’altro come un viaggiatore senza biglietto. A volte mi compiaccio di pensare di aver già pagato più del dovuto, e di poter usufruire di un conguaglio illimitato, un risarcimento con gli interessi per quando la ruota girava sottoterra e io tiravo come una bestia da soma ad occhi chiusi e turandomi il naso. Talvolta invece mi balocco con l’idea che alcuni bilanci non debbano chiudersi in pari, e che la congenita ingiustizia del mondo possa, magari, giocare a mio favore.

La realtà è, credo, che i conti si pagano a rate, i più salati per lo meno. Le piccole gioie si compensano con gli spiccioli delle tasche, e quelle grandi con gli affanni che toccano a tutti. Nascere si paga morendo.

E’ forse inutile, allora, prepararsi al peggio, e portare in tasca un ombrello per pararsi la testa. Tanto pioverà il giorno in cui l’avrò dimenticato a casa. Ma l’abitudine è dura a morire, e io continuo a guardarmi le spalle e a tenere le finestre chiuse. Se non posso evitare il mio destino, voglio almeno vederlo arrivare.

Alive (and not really kicking)

Ieri ho ascoltato per la prima volta l’ultimo album (omonimo) dei Pearl Jam, e non mi ha convinta per niente. Ero partita molto prevenuta, perché le nostre strade (mia e dei Pearl Jam, intendo)  si sono divaricate già dai tempi di Yield, e io ho difficoltà a perdonare chi delude le mie aspettative, specie se si tratta di uno dei grandi amori della mia adolescenza: di fatto i miei Pearl Jam non ci sono più già da qualche disco a questa parte, come anche quest’album mi ha confermato.

Un baio di bei pezzi (non alla Ten, diciamo più alla No Code) ci sono anche qui: Unemployable e Army reserve (ma anche il singolo Life wasted non è male); però una cosa che detesto nei dischi è dover lavorare di coltello per scartare il grasso e tenere il buono, specie se poi è più quello che butti via di quello che ti rimane nel piatto…

E in fondo io i Pearl Jam voglio ricordarmeli sempre così (soprattutto Eddie Vedder, *sbav*), com’erano nel leggendario Mtv Unplugged del 1992, quando mi vestivo con le camicie da boscaiola canadese e tenevo svegli i vicini con la chitarra elettrica… una vita fa, praticamente.

[Dio benedica Youtube che semplifica così tanto la vita a noi miseri blogger poveri d’ispirazione. Allelujah.]

Sincronicità /2 (ovvero: le ragazze adorano gli unicorni)

Sfrutto questo inaspettato momento di lucidità per cogliere anche questa similitudine (o citazione, forse) che mi ha colpita ieri sera, nel senso letterale del termine: Alice nel paese delle meraviglie mi è caduto in testa mentre risistemavo Borges per controllare il titolo del racconto che ho menzionato nel post precedente. L’altra fanciulla con leone e unicorno, invece, fa parte del ciclo della Dame à la licorne: sei arazzi esposti al Musée de Cluny a Parigi, dove li hanno valorizzati meravigliosamente dedicando loro un’intera sala, e visti dal vivo sono davvero misteriosi e affascinanti. Non so come mi siano venuti in mente. Forse ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male. [Zzz.]

Scissor Brothers

Se non ricordo male, I Chemical Brothers l’hanno fatto prima. Quindi quello degli (dei? delle, trattandosi di sisters?) Scissor Sisters è un omaggio. O un plagio. O tutti e due (ora che anche Festivalbar li ha sdoganati, sarà certo più popolare la prima ipotesi.)

C’è da dire che gli (facciamo gli, e non se ne parli più) Scissor Sisters non avevano niente da perdere, i fan dei Pink Floyd avrebbero spezzato loro le gambe in ogni caso. E allora vai di avvitamenti subacquei e meduse lampeggianti a ritmo di musica. Beh, in The test c’era di più, altri quattro minuti di splendido delirio lisergico (anche qui canta Richard Ashcroft. Si vede che oggi è la sua giornata).

Però a me la cover di Comfortably numb piace parecchio. Irriverente, irrispettosa, coraggiosa. Con un ritmo che ti tarantola le gambe e dei falsetti neo-beegees che ti perforano l’encefalo. L’ho ascoltata parecchio all’epoca, e ha fatto da sottofondo ad ore ed ore di pedalate in cyclette (The test, invece, era la colonna sonora dei miei viaggi in treno, all’imbrunire, con il tramonto reso accecante dall’intermittenza delle gallerie e il cielo che si aggrottava curvo sulle montagne sopra Genova) . E in fondo, l’originale non la tocca nessuno, è sempre lì. Certo che è un’altra cosa, ma le cover rispettose di solito fanno la fine del Don Chisciotte nel racconto di Borges (“Pierre Menard, autore del Chisciotte“; è in Finzioni): riscritte uguali, parola per parola (note per nota). Tautologiche, ridondanti: superflue.

E allora onore al merito di chi ha il coraggio di appendere a testa in giù un capolavoro.

Sincronicità

 Synchronicity is a word coined by the Swiss psychologist Carl Jung to describe the “temporally coincident occurrences of acausal events.”

[…] It differs from coincidence in that synchronicity implies not just a happenstance, but an underlying pattern or dynamic that is being expressed through meaningful relationships or events.

Ecco perché, qualche anno fa, mi sono imbattuta in questo

mentre leggevo questi:

L’ultimo l’ho prestato, e non è mai tornato indietro (peccato mortale compiuto da una mia cara amica). Non ho il coraggio di ricomprarlo, tanto non lo rileggerò mai, e mai più sfoglierò i due libri rimasti: mi hanno fatto piangere come una fontana, cosa che non è da me e non mi si addice (ricordo distintamente un’immagine orribile: io, in treno, infagottata nel cappotto, che leggo con le lacrime che mi rigano le guance, mentre una signora seduta di fronte a me mi scruta con disgusto. Erano tempi bui, è vero, ma è comunque una scena indecorosa).

Sono i libri più terrificanti che abbia mai letto, e mi sconvolge l’idea che siano considerati letteratura per ragazzi: meravigliosamente concepiti e scritti, ma strazianti. Mentre li leggevo avevo la sensazione che non ci fosse più speranza al mondo. I due supersiti li ho nascosti in fondo ad uno scaffale, perché la loro sola presenza mi inquieta.

Anche il video di “Check the meaning” mi ha capovolto l’animo. Credo che il senso profondo sia lo stesso: il divino che irrompe nel quotidiano, non come luminosa epifania, ma come ineluttabile constatazione che i fondamenti stessi dell’universo stanno cadendo a pezzi (un uomo trova un angelo: ma è un angelo morto; e quando gli angeli cominciano a morire vuol dire che il mondo sta finendo). [Sensazioni simili le ho provate vedendo non so quale puntata di Neon Genesis Evangelion, quando un Eva si “sveglia” e gli umani impotenti lo osservano divorare la carcassa dilaniata di un angelo. Ma in realtà tutto NGE parla di questo: il velo della realtà quotidiana che si squarcia per lasciar scorgere l’immenso buio che ci circonda. Il trascendente si rivela solo alla fine, quando né per Dio né per l’uomo c’è più speranza.]

Non so perché tutto questo mi sia venuto in mente in una giornata splendida (sole, fresco, casa vuota e silenziosa) come oggi. Non c’è motivo. Comunque presto uscirà il primo film tratto da “Queste oscure materie”, e so che andrò a vederlo e resterò angosciata per un po’. Angoscia catartica, spero.

[Alla sincronicità dovrei dedicare un po’ più di riflessione, è uno di quei bei concetti cosmici che mi piacciono tanto. Ho letto da qualche parte che Jung la definiva un'”esplosione di significato”, improvvisa e inaspettata. Anche lì, il velo che si squarcia; la grande mano di Dio che rompe la volta del cielo; il mondo tridimensionale che si dispiega in una quarta (e una quinta, e una sesta…) dimensione. Affascinante. Affascinante e terrificante. Più che altro terrificante. Brrrr.]

Look who’s writing

Ho cambiato taglio di capelli al blog 🙂

Preludio ad altri cambiamenti, più sostanziali si spera

De arte bloggandi

Ok, tanto per rassicurare (non so esattamente chi, ma tant’è): sono viva e vegeta e non ho perso l’uso della parola (scritta). Solo sono discontinua, come sempre; e ora sono in fase… afasica.Scrivere per forza non è bello. Non ne può venir fuori niente di buono. Ecco infatti

10 buoni motivi per cui non dovrei scrivere su questo blog 

  1. Questo blog sta diventando un metablog: un blog sul quale scrivo dello scrivere in un blog. Ciò significa che sto grattando il fondo del barile. Mi ripeto: non ne può venir fuori niente di buono.
  2. Ho delle cose da fare che sto trascurando. Se accendo il computer è finita, mi perdo per un’ora; quindi meglio saltare il problema a piè pari e lasciare il pc spento.
  3. Devo cambiare gli occhiali. Ora, se sto davanti al pc con le lenti a contatto queste dopo un po’ diventano lattiginose e di una consistenza simile a quella della marmellata [non so perché, prima non mi succedeva; dev’essere una sorta di complessa vendetta cosmica che ogni tot anni mi dà dei problemi con le lenti a contatto e mi costringe a passare a modelli più sofisticati. Da qundo la cornea mi si è sensibilizzata a macchia di leopardo costringendomi ad andare in giro con due occhi da eroinomane (gli occhiali mai, piuttosto la morte o la cecità) ho adottato le biocompatibili; ora non so, ne farò un paio bioniche]. Quindi almeno quando uso il computer indosso gli occhiali. Però li odio, li maltratto e il più delle volte mi addormento tenendoli ancora sul naso, fatto documentato da più e più foto con le quali la mia dolce (dolce sti *****, mon amour) metà mi ricatta regolarmente; in più mi ci sono pure seduta sopra più di una volta. Di conseguenza, le lenti sono rigate in maniera ormai pressoché uniforme; e più che vedere intuisco la presenza di immagini al di là del mio naso. E’ l’ora di rifarli, ma è un passo che non posso prendere tanto alla leggera perché come minimo sarò costretta ad accendere un mutuo o rivolgermi ad uno strozzino: come per quelle a contatto, le lenti normali non vanno bene, ci vogliono di un materiale particolare infrangibile e supersottile per evitare l’effetto fondo di bottiglia (sì, sono molto miope). Ovviamente costano un occhio della testa, perdono l’antiriflesso dopo circa cinque minuti e vanno necessariamente accompagnate da una montatura figa possibilmente di qualche stilista poco noto ma di ottime speranze. Rinunciare al computer è decisamente più pratico ed economico.
  4. Sono logorroica. Per esprimere un concetto semplice (come “devo rifare gli occhiali”) impiego un paragrafo lungo e involuto con mille subordinate incastrate una dentro l’altra, e due ordini di parentesi (tonde e quadre). Permettermi di tenere un blog è come mettermi in mano una molotov.
  5. La mia gatta vive sulla tastiera del pc. Per scrivere dovrei spostarla, e ciò la infastidisce. E’ anche un’operazione difficile, perché come tutti i gatti tende ad abbandonarsi a peso morto raggiungendo il peso specifico della della criptonite; e alla fine i tasti rimangono felpati, con tutto il pelo in mezzo (e non si riesce più a premerli bene). Forse dovrei comprarle una tastiera sua, non so.
  6. Se scrivo, sto seduta a lungo. Se sto seduta a lungo, mangio. Se mangio, ingrasso, e in più, siccome sto cercando di rinunciare quasi definitivamente ai dolci* (lo so, lo so, ma dal momento in cui è finito il mio fioretto mi sono strafogata in maniera indecente, e mi disgusto da sola; poi devo ammettere che quando non ne mangiavo mi sentivo molto meglio, e soprattutto sono tornata quarantotto chili senza sforzo) mi strafogo di yogurt, frutta e cereali col risultato che il mio apparto gastrointestinale diventa ipercinetico. E in generale, ciò non è un bene. *[Nuova collezione Domori esclusa. Per quella farò una (alcune) (molte) eccezioni.]
  7. Sono stanca, svogliata, apatica. Tenere un blog non dovrebbe essere un dovere; dovrebbe soddisfare un’esigenza di condivisione, di comunicazione. Io al momento non ce l’ho. Ho abbastanza voglia di farmi i fatti miei.
  8. Un blog veicola un’immagine dell’autore. Che immagine di me voglio dare? Che immagine di me sto dando? Non lo so, in nessuno dei due casi. E soprattutto, voglio che il mondo (beh, in concreto una parte infinitesimale del mondo, ovviamente; ma potenzialmente tutto il mondo) sappia delle cose su di me? Non ne sono certa. E soprattutto, temo di non risultare nemmeno lontanamente figa quanto vorrei. Su questo dovrei meditare.
  9. Forse un blog dovrebbe avere un concetto forte alla base, una linea editoriale, se vogliamo. Quella del metablog potrebbe anche essere un’idea. Non particolarmente fertile, probabilmente, ma se qualcuno è riuscito a fare un blog su Snakes on a plane… In ogni caso, per il momento questo blog è poco più che un’accozzaglia di ripetizioni e congiuntivi mancati.
  10. A questo punto non posso più negarlo: soffro di cervicale. Ho delle vertigini improvvise che neanche sull’ottovolante. Devo smettere di addormentarmi dappertutto, in treno, al cinema, sul divano: soprattutto devo smettere di addormentarmi seduta, o dovrò assumere un chiropratico. Scrivere sulla tastiera del computer è una tortura, dopo un quarto d’ora perdo la sensibilità alle mani e comincia un dolore sordo dalla spalla destra al gomito. Sto inesorabilmente invecchiando. Tunnel carpale, arrivo.