Dividendo la mia vita fra due luoghi diversi, con abitudini e ritmi piuttosto differenti, ho un senso alquanto netto dello scorrere del tempo, che nella mia mente scandisco di settimana in settimana, di weekend in weekend. Involontariamente, ogni settimana mi ritrovo ad elaborare una sorta di bilancio minimo, una sommaria ricapitolazione di ciò che mi è accaduto, o di quello che attendo mi accada. Traggo conclusioni ed auspici, traccio grafici mentali, produco considerazioni. Poi comincio una nuova settimana.
Questo weekend ha prodotto per me una serie di piccoli fatti positivi, che non aspettavo. Per mia natura, e per una sorta di diffidenza acquisita negli anni, quando mi succede qualcosa di innegabilmente positivo temo per il peggio. In questo periodo, in cui sto inanellando una serie di piccoli successi di vario genere, alcuni concreti e tangibili, altri emotivi, attinenti più alle sensazioni e ai sentimenti che ai fatti, mi muovo circospetta come un gatto. Attendo le conseguenze da un momento all’altro, e sto in allerta per non farmi cogliere impreparata. Cammino con la schiena al muro, e contengo le emozioni per limitare i danni futuri.
Che il karma sia rotondo lo sanno tutti, e che giri come una ruota anche. Quello che nessuno ha il privilegio di conoscere, è quando il moto circolare trasformerà la sua ascesa in una discesa, quale sia l’apice della propria curva, il trionfo che implicitamente conterrà in sé, in nuce, la sua stessa disfatta. E’ l’enigma del giocatore, il cui talento sta, più che nell’accumulare, nel sapere quando sospendere le puntate, nell’avvertire l’impercettibile rallentare della ruota un attimo prima che il movimento si inverta e le posizioni si ribaltino, il sopra diventi sotto e il sotto sopra.
Quindi mi muovo cauta, più in silenzio che posso. Cerco di restare invisibile, di non attirare l’attenzione del mio karma annoiato che si è dimenticato di girare, e per un po’ si è appisolato in salita. Mi chiedo se facendo attenzione, badando a non urtare nulla, sia possibile scivolare fra le pieghe del proprio destino, ed evitare di saldare i propri conti, sgattaiolando tra un evento e l’altro come un viaggiatore senza biglietto. A volte mi compiaccio di pensare di aver già pagato più del dovuto, e di poter usufruire di un conguaglio illimitato, un risarcimento con gli interessi per quando la ruota girava sottoterra e io tiravo come una bestia da soma ad occhi chiusi e turandomi il naso. Talvolta invece mi balocco con l’idea che alcuni bilanci non debbano chiudersi in pari, e che la congenita ingiustizia del mondo possa, magari, giocare a mio favore.
La realtà è, credo, che i conti si pagano a rate, i più salati per lo meno. Le piccole gioie si compensano con gli spiccioli delle tasche, e quelle grandi con gli affanni che toccano a tutti. Nascere si paga morendo.
E’ forse inutile, allora, prepararsi al peggio, e portare in tasca un ombrello per pararsi la testa. Tanto pioverà il giorno in cui l’avrò dimenticato a casa. Ma l’abitudine è dura a morire, e io continuo a guardarmi le spalle e a tenere le finestre chiuse. Se non posso evitare il mio destino, voglio almeno vederlo arrivare.