I blog hanno questa graziosa caratteristica di trasformare una persona abitualmente dotata di un minimo di inventiva e forse addirittura di una certa verve linguistica in un individuo dislessico e graficamente balbuziente. Funziona più o meno così: fai un giro su internet, vedi che un sacco di gente ha un blog, decidi che se ne avessi uno tu lo faresti molto meglio. Scriveresti cose più interessanti, saresti arguto e incisivo e la gente ti amerebbe. Hai anche già in mente un titolo, qualcosa di molto moderno e metropolitano tipo “Crosstown traffic”, con una strizzata d’occhio al lettore agé e al musicista mancato . Hai mille idee, per una decina di post, tre racconti, due saggi, una sceneggiatura cinematografica e la bozza per uno spot pubblicitario. Fosse per te scriveresti anche sui tovaglioli di carta o sullla carta igienica.E allora fai il blog. All’inizio sei un po’ timido, non vuoi strafare. Cominci un po’ in punta di piedi, titubante, poi ti fai prendere la mano e scrivi due, tre post al giorno. Passa qualche lettore occasionale, qualcuno commenta, alcuni tornano più volte. Tu gonfi le piume, scrivi anche di qaunte volte sei andato in bagno. Poi, di colpo, più niente. Perché è scattata la sindrome del piedistallo: hai paura di deludere i tuoi lettori.
E’ una malattia infida. L’ho sempre avuta, che io ricordi: quand’ero ragazzina se un ragazzo mi faceva un complimento lo mandavo a cagare, avevo paura che parlando con me per più di tre secondi si sarebbe accorto che avevo i capelli crespi, che la mia conversazione era noiosa e che mi mangiavo le parole. Tanto valeva troncare tutto sul nascere, per non alimentare false speranze dalle due parti. Se mi capitava di conoscere delle persone nuove mi eclissavo il più possibile, in maniera direttamente proporzionale all’interesse che provavo per loro, perché temevo che approfondendo la mia conoscenza sarebbero rimaste inevitabilmente deluse. Anche a scuola, dove sul piedistallo sono sempre stata davvero, vivevo nel terrore di non essere all’altezza della mia fama.
E’ possibile che la sindrome del piedistallo spieghi con buona approssimazione l’evoluzione del blog-tipo, che dopo un certo numero di post si trasforma in un diario. L’ispirazione si inaridisce, la vena artistica svela i suoi limiti, il senso di inadeguatezza prende campo. Delle due l’una: o si molla tutto, o si scrive di tanto in tanto, regolarmente, per non sembrare proprio rinunciatari (a se stessi, prima che agli altri); di qui il diario.
Finita questa lunga premessa, mi accingo a raccontare brevemente gli avvenimenti dell’ultimo weekend.
Ho dormito molto, moltissimo. Direi una media di dodici ore per notte. Non so perché, non ero neppure stanca. Bé, forse per la notte fra sabato e domenica può aver contribuito una discreta bevuta, completamente al di fuori delle mie abitudini. Comunque, alla faccia dell’alcool, mai avuta una pelle così distesa.
La mezza ciucca che mi ha regalato sonni così pacifici deriva dal matrimonio al quale sono stata invitata sabato. Lo sapevo da tempo, e la questione vestito mi ha tormentata per un po’. Io non amo i vestitini tutti balze, fiori e colori pastello che si usa indossare in queste circostanze; ho quindi scelto un tailleur pantalone bianco panna, con sottili profili in raso, color perla. Con camicia in raso, color perla, e accessori marroni, compresi sandali e scarpe di pitone e una lunga collana d’ambra, vintage. Nell’insieme, sembravo spuntata da una puntata di Miami Vice, tanto che lo Gnu mi ha chiesto se, giacché io ero vestita come Sonny Crockett, lui doveva fare Rico.
Sono stata bene, comunque. Il ricevimento era sontuosissimo, nel parco di una splendida villa patrizia, e fra uno spumantino frizzante d’aperitivo, qualche bicchiere di bianco frizzante che durante il pranzo scivolava giù a meraviglia e un paio di brindisi col delizioso brachetto servito coi dessert, alle sei di sera attaccavo discorsi con gli sconosciuti. Non sono abituata a bere, e l’alcool mi rende eccessivamente socievole. Fra una portata e l’altra giravo per i tavoli a salutare e scambiare due parole con tutti, tanto che qualcuno mi ha chiesto (acidamente) se ero io la sposa.
Alle nove e mezza io e lo Gnu dormivamo come neonati davanti alla tv, a casa. Alle undici e mezza un certo rimorso di coscienza ci ricordava che i giovani usano uscire, il sabato sera, e lo Gnu accendeva la luce per costringerci al risveglio. Alle tre e mezza mi svegliavo di soprassalto, vestita, truccata, e con la luce accesa. Per la seconda sera di fila. Quindi in definitiva non è neppure colpa dell’alcool, forse starò diventando narcolettica.
I weekend sono brevi, quando li trascorri dormendo per il cinquanta per cento del tempo. Domani ricomincia la routine del lavoro, e direi che posso cominciare a contare i giorni da qui alla disoccupazione: meno di venti, una dozzina lavorativi. Tira un’aria da ultimi giorni di di scuola e sto già salutando tutti i clienti. Un po’ per educazione, un po’ perché qualcuno mi mancherà davvero, un po’ perché spero che la mia cliente miliardaria si ricordi della buonuscita che mi aveva mezzo promessa. Mi aspettano tempi di vacche magre, non c’è da andare troppo per il sottile: per il momento quello che arriva, prendo. E dopo, la bohème, temo.